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tramite Diario Scapestrato di Alucard82 il 22/07/05
Finalmente li ho trovati, quei brevi saggi che avevo scritto sulla libertà, sullo spirito e sul corpo, ma rileggendoli ho notato che sono un pò complicati e anche discontinui. Intendo, in questi non si parla principalmente di corpo e spirito, ma di amore e dipendenze, di volontà e libertà... mi sa che ne devo scrivere uno appositamente per spiegare l'unione inscindibile di queste nostre parti... intanto però vi pubblico i due saggi inconcludenti, da leggere dopo una sbornia totale che magari ci si trova più senso. Vi avverto, se non volete impazzire non leggete, non fanno parte integrante di questo blog, sono solo idee^^.Il primo è questo:
"Fino a che punto si può essere dipendenti da qualcosa? Nelle ultime settimane posso dire di aver avuto a che fare con dipendenti di vario genere: da canna, da alcool, d'amore. Cos'hanno a che fare questi tre tipi fra loro? O sono a tal punto differenti che è improponibile un confronto fra essi?
Quando siamo affamati, di fame normale, desideriamo mangiare, ne abbiamo bisogno perché il nostro corpo manca di nutrimento, di energia per accendere le innumerevoli reazioni chimiche che avvengono quotidianamente all'interno del nostro organismo. Più in generale possiamo dire che un desiderio di qualcosa lo abbiamo quando ci sentiamo manchevoli di qualcosa. Banale. Ma applichiamo questo principio, se così vogliamo chiamarlo, alle prime due dipendenze. Ognuno di esse manca di qualcosa. Dal punto di vista biologico si potrebbe dire che mancano di oppioidi endogeni, sostanze euforizzanti ed analgesiche prodotte dal nostro corpo quando particolarmente sollecitato. Quindi più a monte del desiderio, ciò che cerchiamo, è un condizionamento di cui vogliamo subire gli effetti perché ci sentiamo manchevoli degli effetti. Ciò a dire anche che prima della realizzazione il dipendente sta male, e poi, finiti gli effetti del condizionamento, starà di nuovo male e ricercherà nuovamente l'oggetto del desiderio tornato nuovamente insoddisfatto. In questo passaggio è evidente che l'ottenimento di qualcosa non è sufficiente per placarci, ma è necessario che essa ci dia qualcos'altro, cioè ciò che fa. Ciò che fa in quanto ci appaga, ci realizza.
Canna e alcool sono evidenti di per sé dei sostitutivi, ma di cosa? Di ciò che vogliamo ma non riusciamo ad ottenere. E mai otterremo, a parer mio. Il limite più grande da noi stessi imposto (e dalla società consumistica) è quel cercare fuori da noi uno specchio in cui riflettere la nostra immagine, a cui appartenere, da ingurgitare. Ci sentiamo manchevoli di noi stessi, non ci bastiamo.
Conosco donne tra i venti e i trent'anni che non riescono a stare senza un legame affettivo "d'amore", che non sono mai state, dopo una prima volta, senza il "ragazzo". Anche questa è dipendenza, anche qui si respira il non mi basto. Quel che mi chiedo è quanto diverga tale dipendenza dalle prime trattate. Molto, per il mondo reale che le separa, poco a livello semantico perché rimangono individui fondamentalmente infelici della loro condizione esistenziale, sono infelici di sé e, di rimando, della loro vita. Ho scritto semantico perché ho parlato con questi e mi hanno comunicato cose simili e identiche.
In questi casi si dovrebbe imparare a non "divorare" ciò che sta fuori, ricordarci di non tralasciare il nostro confine con l'esterno, il corpo, ma anche la personalità, l'alterità. Le cose e le altre persone stanno fuori di noi, non fanno parte di noi.
Fumare certo non fa male. È il modo in cui lo teniamo dentro, dovremo espellerlo tutto quel fumo che buttiamo dentro. Schiacciando il più possibile il diaframma, verso l'interno o, non ricordo, verso il basso. Se ci proviamo vedremo almeno due piccole sbave di fumo. È questo che intendo con ingurgitare, il rispecchiarsi negli altri.
Se ci sentiamo un vuoto dentro non tentiamo di riempirlo con qualcosa di estraneo al nostro corpo, sarebbe illudersi momentaneamente di essere completi. Prendiamo atto di ciò che proviamo e lasciamolo fluire tutto nel cuore, in qualcosa di più vicino e personale. Il dolore, il peso, l'angoscia, l'ansia generati da quel vuoto non spostiamolo da dove esso non riposa: fuori da noi.
Ci si può chiedere se ciò non porti in realtà all'indifferenza, ma sarebbe credere che proiettarsi negli altri sia come muoversi verso gli altri. Sono cose diverse."
L'altro è questo:
"Corpo e Spirito non concorrono fra loro, essi sono presenti nello stesso; possiamo scindere le cose, vederle separate, ma nella realtà esse sono tutte insieme contemporaneamente.
La psiche è anch'essa presente tutta quanta? è il ponte tra corpo e spirito, materia e anti-materia, il prevedibile e l'imperscrutabile; il miracolo sta in questo: l'unione di essi nell'uomo, la loro compresenza nello stesso.
Come regolarsi dunque nell'amore? Seguire il "cuore" sarebbe facile, ma solo se Corpo e Spirito concordano, se invece vogliamo, perchè pensiamo, mettere degli ostacoli, lo facciamo ed ecco nascere il dubbio, o forse l'illusione di avere ancora la libertà di scelta. Confusione.
Forse è lo scindere delle cose ad essere un illusione, il problema è proprio la compresenza nell'individuo di libertà e processualità. Non se ne può uscire, almeno che non si elimini la libertà o la si esalti.
Oppure bisogna scindere Corpo e Spirito e dare a loro un ordine. Ma questo ordine va mantenuto oppure è possibile cambiarlo? Entra nelle possibilità e ora bisogna ricollegarsi all'inizio, quello della nostra origine. Le domande vanno al giusto e al vero, ma qui la priorità ce l'ha il vero, o per meglio dire, l'ultima istanza. E non c'è modo se non credendoci alla verità, ma non perchè è verità, ma per la nostra condizione e non capisco se è stato un dono per noi, per Sè o per nessuno. Allora si ritorna al giusto, ed in amore a cosa si può far appello per decidere?
Il difficile poi sta nel non cadere in contraddizione. La via diventa impervia quando dico che Corpo e Spirito, processulità e libertà, sono inscindibili, poichè questo per ragionamento dà poca solidità alla volontà come qualcosa che possa dar frutto ad una libertà. La domanda quindi può essere posta in questi termini: tutto ciò che faccio, dico e sono è ancorato al mio passato, alla mia esperienza? Se così fosse la mia libertà sarebbe "determinata" esclusivamente dall'esterno, ovvero dal fatto che all'individuo non è conoscibile le reazioni-eventi che scaturiscono dagli altri individui. Quindi la libertà non sarebbe condizione umana, bensì dettata dalla situazione fisica(spazio-temporale) in cui è gettato l'uomo.
Cosa intendo per libertà nell'uomo? Intendo la possibilità di astrarsi da una condizione impregnata di stimoli e compiere un atto svuotato dalla processulaità. Domanda: anche questo astrarsi farebbe parte della processulaità, cioè sarebbe in fin dei conti una tensione del particolare individuo? Eppure comunque questo atto svuotato sarebbe libero e creerebbe una nuova libera situazione-evento. Al che bisognerebbe indagare se esiste un agionamento privo di una qualche processulità, o per meglio dire, completamente libero. La risposta è no, in quanto si parte da degli eventi, in quanto lo stesso ragionare non è svincolato da delle leggi, in quanto il fatto di essere un ragionamento corretto non è condizione sufficiente per un atto libero.
Allora al ragionamento bisogna aggiungere un "tassello" non appartenente alla ragione, qualcosa di "spirituale", di "irrazionale", che non segue la processulaità: un'origine.
Tale origine può essere dedotta, ma ciò non dà all'origine una dimensione autentica, in quanto entrerebbe come il risultato di un processo. Per cui, tale origine, deve essere data come una rivelazione."
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